INTERVISTA CON TONI TRUPIA
Si racconta Toni Trupia, giovane autore agrigentino, che dopo varie esperienze che lo hanno visto impegnato tra cinema e televisione, si dedica ai primi cortometraggi fino a quando, nel 2005, è assistente alla regia di Michele Placido per il film “Romanzo Criminale”. “L'Uomo Giusto” è la sua opera prima, prodotta dallo stesso Michele Placido.
Toni, sei un giovane talento che ha coronato il sogno di veder il suo film “L'uomo giusto”, realizzato e premiato. Quando hai sentito la vocazione per il cinema?
E' iniziato tutto molto presto, già da ragazzino ho cominciato a pensare che la mia vita si sarebbe orientata verso questo lavoro; finito il liceo ho cominciato a dedicarmi completamente al cinema partendo immediatamente per Roma con l'idea di voler fare il centro sperimentale.
Come sei riuscito ad arrivare ad esser regista, che evoluzione ha seguito il tuo percorso di crescita cinematografica?
Arrivato a Roma ho tentato di entrare nel centro sperimentale ma non ammetteva allievi in quel momento. Ho dunque aspettato, frequentando normalmente l'università e l'ultimo anno ho presentato nuovamente la domanda e mi hanno preso; da lì credo che sia veramente cominciato il mio percorso professionale.
Ti abbiamo visto assistente a fianco del maestro Michele Placido in “Romanzo Criminale”: quali sono le cose fondamentali che ti ha trasmesso e gli insegnamenti maggiori?
Innanzitutto mi ha insegnato a vedere questo lavoro come un qualcosa di molto concreto. Michele è diventato per me un punto di riferimento, mi ha accompagnato verso gli aspetti più reali di questa professione. Bisogna, a un certo punto, lasciarsi prender dalla storia, dagli attori e mettersi a loro disposizione.
Cosa credi abbia colpito di più di te, l'attenzione di Michele Placido?
E' stato tutto un caso, avevo finito il centro sperimentale, avevo avuto la possibilità di fare un saggio di diploma importante. Tramite un conoscente comune sono poi arrivato sul set di “Romanzo Criminale” come volontario, portando i caffè per due mesi. Placido era inavvicinabile, c'erano gerarchie molto rigide sul set. Si sono poi combinati una serie di elementi che hanno portato Michele ad interessarsi a ciò che avevo realizzato: l'ho invitato a veder il mio saggio. La sera della proiezione me lo sono ritrovato in sala e da lì è cambiato tutto. Spesso gli emergenti scelgono di rappresentarsi nelle loro prime opere, io invece ho voluto discostarmi realizzando qualcosa che fosse distante dalla mia persona e penso che soprattutto questa mia scelta lo abbia colpito; mi ha poi proposto di collaborare con lui per la realizzazione de “L'Uomo giusto”: un salto nel vuoto per tutti e due, lui come produttore, io come regista.
Com'è la vita sul set, come ci si districa fra imprevisti, incomprensioni, organizzazione dei vari settori, logistica, direzione del lavoro?
Sono stato facilitato in questo aspetto poiché Michele tende a destrutturare le gerarchie comuni; ho avuto anche la possibilità di scegliere i miei collaboratori: i miei compagni che si erano diplomati al centro sperimentale con me. C'era un equilibrio speciale, potevamo parlare senza timore di esser giudicati, dirci le cose così come le pensavamo: tutto ciò ha resomolto fluido il lavoro sul set. Tuttavia ci sono stati momenti di tensione dovuti all'estrema economia in cui si è dovuto girare il film.
Immaginavi la vita da regista come poi si è rivelata? L'hai trovata più difficile?
Ho capito che bisogna mettere in gioco oltre alle idee e alla passione, degli elementi umani che non sono così scontati; bisogna lavorare sulla propria personalità, sul proprio ego, metterlo da parte. Non è una cosa così ovvia arrivare sul set e imporre la propria personalità, bisogna mettersi in relazione con le altre personalità, mettersi in gioco.
Ricopri il ruolo importante del regista ne “L'uomo giusto”: sei mai entrato in disaccordo con la “sceneggiatura” o la “fotografia”?
In sceneggiatura litigo molto ma è funzionale e utile essere in disaccordo, poiché essendo un lavoro di sintesi delle idee, bisogna esser disposti ad abbandonare quelle che sono le prime idee. Abbiamo discusso tantissimo in fase di scrittura ma c'era comunque Michele che supervisionava tutto il lavoro. Col direttore della fotografia avevo meno confidenza e c'è stato uno scontro più diret
to ma sempre orientato a raggiungere la soluzione migliore.
Credi di aver già elaborato un tuo stile personale in questa produzione o ne sei ancora alla ricerca?
Lo stile si elaboraattraverso una serie di tappe che sono necessarie per prendere coscienza del lavoro che si fa, non credo che un'esperienza basti per rendersi consapevoli di quali siano i meandri di questo lavoro. Penso di essermi espresso, di non aver tradito quelle che erano le mie prerogative iniziali. Chiaramente sono molto curioso di verificare se i percorsi che ho intrapreso in questo film portino dalla partegiusta.
Quale tipo di film definiresti il tuo?
Il film parteda una storia drammatica, da un fatto di cronaca che ci aveva colpito; ho “sporcato” quelle che erano le connotazioni drammatiche che il soggetto che stavo trattando aveva, con degli elementi di commedia. Direi che il film è un compromesso fra le due cose: un dramma con venature da commedia.
Quali registi ammiri di più sia italiani che stranieri e perchè?
Se c'è un regista che tengo sempre in considerazione come esempio, che mi sembra abbia veramente riassunto nei suoi film le caratteristiche universali del cinema, trattando trasversalmente tutti i generi, è Pietro Germi: un regista completo, un maestro, un grande tecnico. Sul versante straniero mi piace moltissimo la commedia americana degli anni '60 di Billy Widler.
Quale tipo di montaggio, uso delle luci e messa in scena della storia hai adottato e in funzione di voler enfatizzare che cosa principalmente?
Quando abbiamo cominciato a elaborare l'impianto visivo del film i riferimenti che abbiamo preso erano i film francesi di Leconte, in particolare “L'uomo del treno”, che ha una connotazione visiva tipica del noir, cioè quella di rendere evidenti i contrasti visivi. Abbiamo giocato molto sui contrasti luce-buio. Il montaggio ha assecondato quelli che erano gli andamenti del racconto ed è stato un momento di riscrittura del film, un lungo processo di rielaborazione.
Cosa consiglieresti a un giovane che, come te, vuole tentarela carriera da regista?
Prima di tutto di non porsi problemi di ordine espressivo, all'inizio bisogna “lanciarsi senza paracadute” e vedere dove si atterra, trovare un modo per dare concretezza alle proprie aspirazioni, non aver troppi condizionamenti stilistici. Bisogna esser molto curiosi della vita, della realtà, cercare di scoprire e utilizzare i mezzi che si ha a disposizione.
I sogni si avverano, la tua storia ne è la dimostrazione, credi che la fortuna abbia avuto una componente maggiore o deve essere anche “aiutata”?
Penso che la fortuna conti abbastanza, bisogna che ci sia qualcuno che si accorga di te, molte volte ci sono talenti che rimangono inespressi perchè non hanno attenzioni ma non si può prescindere da quelli chesono gli elementi di predisposizione o talento. Sono stato fortunato avendo incontrato Placido che si è accorto di me e mi ha dato la possibilità di mettermi alla prova; bisogna saper cavalcare l'occasione, imparare a star dietro alle dinamiche di questo mondo: diverse da quelle della vita comune, al di fuori del tempo. Bisogna imparare delle regole che non sono scritte da nessuna parte.
Hai già in vista altri progetti?
Sì, in questo momento sto lavorando a più di un progetto: un documentario su Germi e sto decidendo quello che dovrebbe esser il mio secondo film, mi sono stati proposti alcuni soggetti e li sto valutando. Sto anche collaborando con Michele Placido alla scrittura del suo nuovo film. Mi auguro di partire poi entro l'anno con un lavoro mio.
Lidia Modena per Hidrogeno, Roma
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